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Through the Eyes of Dr. Susanna Silberstein Ceccherini:

The World of Tullio Levi-Civita

 

The following interview was conducted by Judith Goodstein on July 18, 2009, with Dr. Susanna Silberstein Ceccherini, who was adopted by Libera Trevisani Levi-Civita in 1945, following the death of her husband Tullio Levi-Civita in 1941. Along with his mathematical peers, Tullio Levi-Civita played a key role in putting Italian mathematics on the world map in the early decades of the twentieth century. In this interview, Susanna Ceccherini talks about her mother’s memories of her own family, her subsequent marriage to Levi-Civita, the toll the racial laws took on Levi-Civita, who was Jewish, and the response of colleagues and students he had known and worked with, including Francesco Severi, Ugo Amaldi, and Giovanni Lampariello.


Judith R. Goodstein (JRG): A Tullio Levi-Civita piaceva moltissimo la matematica, e poi cos’altro?

Susanna Silberstein Ceccherini (SSC): Non so bene. Al contrario della maggior parte dei matematici non gli piaceva ascoltare la musica, che considerava un ostacolo al suo continuo pensare a problemi matematici, e non era particolarmente interessato nemmeno all’arte o al teatro.

JRG: E quando Libera non ha potuto avere figli, lui come ha reagito?

SSC:
Non si è particolarmente dispiaciuto, credo. Invece mia madre – che a seguito di una operazione era nell’impossibilità di avere figli – avrebbe voluto adottarne uno, ma Tullio non ha voluto. Tanto è vero che mia madre mi ha adottato soltanto dopo la morte del marito; pertanto io non posso portare il cognome Levi-Civita.

JRG: Perché?

SSC: Nel mio caso, poiché l’adottante era una vedova, si poteva aggiungere al mio cognome quello dell’adottante e non quello del marito defunto. Il cognome della mia madre adottiva era Trevisani. Tuttavia, poiché Libera Trevisani continuava a essere chiamata “la signora Levi-Civita” nel cerchio delle sue conoscenze,  io venivo spesso presentata come Susanna Levi-Civita.  

JRG: Questa è la legge in Italia?

SSC: Sì, mi sembra giusto. Cambiando discorso, potremmo parlare di come Tullio e Libera hanno vissuto il periodo delle leggi razziali in Italia ?

JRG: Possiamo prima parlare dei rapporti di Levi-Civita con Severi e poi tornare a questo argomento?

SSC: No, perché è stato dopo le leggi razziali che mia madre non ha più voluto vedere Severi. Le leggi razziali sono state promulgate nel ’38. E Tullio Levi-Civita è subito stato radiato dall’Università di Roma e da tutte le accademie scientifiche italiane, in quanto di “razza ebraica”. In particolare, gli ebrei sono stati cacciati dall’Accademia dei Lincei, che poi nel 1939 fu inglobata nell'Accademia d'Italia, istituita allora dal Governo fascista per sottolineare la rottura con il passato.

La cosa che ha più impressionato mia madre è che molti matematici, anche quelli con cui vi era stato uno stretto legame di amicizia, avevano cessato ogni rapporto con Levi-Civita, come se non lo avessero mai conosciuto. Questo comportamento fu un duro colpo per lei e per Tullio, la cui salute cominciò a vacillare proprio in relazione a questa situazione così dolorosa.


Molto affettuosi e comprensivi sono stati, invece, il professor Ugo Amaldi e sua moglie Luisa, che non erano ebrei, ma hanno sempre voluto molto bene a Tullio e sono sempre stati molto gentili anche con mia madre rimasta vedova. Io li ricordo molto bene. Oltre agli Amaldi, anche gli ultimi scolari di Tullio Levi-Civita - i professori Antonio Signorini e Giovanni Lampariello – gli sono stati sempre devoti e vicini, nonostante le leggi razziali, e anzi proprio per questo hanno manifestato ancora di più la loro solidarietà e il proprio affetto (io poi divenni amica dei figli di entrambi, e in casa Signorini ho conosciuto il mio futuro marito); e non mancarono manifestazioni di affetto e di solidarietà anche da parte di altri matematici non ebrei, tra i quali il ventiduenne Lucio Lombardo-Radice, che gli inviò una lettera particolarmente commovente.

​

Quando, nel dicembre del 1941, Levi-Civita morì, soltanto l’Osservatore Romano pubblicò la notizia della sua morte, sottolineando la grandezza del matematico scomparso e il suo essere socio della Pontificia Accademia delle Scienze. In quel periodo era proibito scrivere sui giornali italiani annunci mortuari riguardanti gli ebrei; fu così che mia madre ebbe anche il dolore di non poter annunciare sui quotidiani italiani la morte del marito. Non poté neppure organizzare un funerale detto “di prima classe”, cioè con il carro trainato da cavalli neri, che era interdetto agli ebrei, i quali dovevano avere un funerale molto modesto utilizzando un semplice furgone come mezzo di trasporto. Al funerale non andò quasi nessun collega, neanche Severi. E questo mia madre non glielo ha mai perdonato.

JRG: E prima, Severi e Tullio Levi-Civita erano stati amici stretti?

SSC: Sì, erano legati da una profonda e lunga amicizia che risaliva ai tempi in cui erano colleghi a Padova. Mia madre però diceva: “Severi si è comportato in un modo indegno” e non l’ha più voluto vedere. Della presenza di altri colleghi al funerale non so; certamente c’era Guido Castelnuovo (come mi ha detto sua figlia Emma) e forse anche Federigo Enriques, entrambi molte legati a Tullio. A proposito dell’amicizia tra le famiglie Castelnuovo e Levi-Civita, amicizia ben viva anche nei tempi più bui, c’è da ricordare che nel ‘44, Guido Castelnuovo, in quanto in pericolo di retate nazi-fasciste, è stato per qualche tempo nascosto in via Sardegna a casa Levi-Civita, sebbene Tullio fosse morto nel 1941. Mia madre mi raccontava che Castelnuovo aveva una carta d’identità falsa intestata a un nome di fantasia, ma diceva sempre che, se fosse stato fermato per strada e gli avessero chiesto chi fosse, avrebbe risposto “Sono il prof. Guido Castelnuovo”, in quanto era per lui inconcepibile dire una cosa non vera; e mia madre era naturalmente molto preoccupata per questo suo atteggiamento. Resta il fatto che mia madre diceva che al funerale del marito non c’era nessuno, a parte, come ho detto,  Castelnuovo ed Enriques, … ma lei forse si riferiva ai colleghi non ebrei. Il caso di Levi-Civita non è un caso isolato: ho saputo da Emma Castelnuovo che, al funerale di Vito Volterra (ottobre 1940), erano presenti solo tre le persone estranee alla famiglia: Emma stessa, suo padre Guido e una terza persona. Non so se Tullio Levi-Civita, a causa delle sue precarie condizioni di salute, sia potuto andare al funerale di Volterra, ma, molto probabilmente, mia madre, molto affezionata alla signora Virginia, deve aver partecipato al funerale. Certo le famiglie Enriques, Castelnuovo, Volterra e Levi-Civita sono state molto legate, un legame profondo, durato attraverso gli anni e che dura tutt’ora attraverso le generazioni successive: io mi sento e mi vedo ancora con Lorenzo e Federico Enriques (nipoti di Federigo), con Anna Morpurgo e con Enrico e Augusta Castelnuovo (tutti e tre nipoti di Guido), e con Enrico e Virginia (nipoti di Vito).

JRG: A proposito di ebrei e non ebrei, mi avevi anche detto che Libera e Tullio si sono sposati in Chiesa.

SSC: Tullio e Libera si erano sposati civilmente nel 1914. Mia madre, che era cattolica, non mi ha mai parlato di un loro successivo matrimonio religioso, ma io ho trovato due anni fa il certificato di un matrimonio religioso celebrato dopo l’emanazione delle leggi razziali; c’è da dire che in quel periodo alcuni preti rilasciavano a ebrei certificati falsi di battesimo, o di matrimonio con un coniuge “ariano”,  al fine di utilizzare alcune norme che in un primo periodo di applicazione delle leggi razziali sembravano consentire una “discriminazione” nella “discriminazione”, ossia un’attenuazione delle restrizioni imposte agli ebrei dal Governo, a favore di coloro che, pur essendo di “razza ebraica”  dimostrassero di essere cattolici. A questo proposito devo aggiungere che, come ho già detto, a partire dal 1938, Tullio, che aveva allora 65 anni, aveva cominciato a soffrire di gravi disturbi cardiaci, quasi certamente sopraggiunti a causa della situazione per lui molto dolorosa; immagino che Libera abbia voluto cercare di attenuare le sofferenze del marito ed abbia insistito per tentare di utilizzare a tal fine anche lo strumento del matrimonio cattolico. Questo è ciò che io ritengo: mia madre non mi ha mai detto niente al riguardo, ed io del resto, come ti ho detto, non le ho mai chiesto molto.

JRG: Com’è che dopo la guerra Libera ti ha trovato?

SSC: Dunque, io ero nascosta in un convento di Firenze, per sfuggire alle leggi razziali, portata lì nel 1943, all’età di undici mesi, dai miei genitori (Walter Silberstein e Edith Hahn), che poco dopo sono stati presi dai nazi-fascisti e internati a Fossoli per essere poi deportati e uccisi ad Auschwitz.

JRG: Come si chiamava questo convento?

SSC: Istituto “La Fantina”, in Via dell’Erta Canina. Libera Levi-Civita negli anni ‘30 aveva fatto amicizia con una signorina di Firenze, Marcella Treves, che aveva conosciuto dagli Enriques e che nel 1945 le suggerì di adottarmi. I genitori di Federigo Enriques risiedevano a Firenze e conoscevano la famiglia Treves; Federigo e Tullio abitavano entrambi a Roma in via Sardegna 50, in uno stabile fatto costruire da una cooperativa di professori dell’Università di Roma. Questa Marcella, figlia dell’avvocato Guido Treves, aveva una lussazione alla gamba e soffiriva di questa situazione. Era diventata molto amica di mia madre e si unì ai Levi-Civita nel loro viaggio in America quando Tullio si recò a Princeton a trovare Einstein. Mia zia guidava l’automobile, e una volta diede un passaggio a Einstein… [ride].

JRG: Quale zia?

SSC: Questa Marcella Treves che ho detto, che non era una vera zia, ma che io chiamavo zia Marcella, perché era una grande amica di Libera.

JRG: Cornelia, l’altra sorella di Libera, non è andata in America?

SSC: No.  Zia Marcella mi raccontava che, quella volta che portava Einstein in macchina, era un po’ emozionata e quando arrivarono a destinazione si dimenticò di tirare il freno a mano; ed Einstein, per nulla turbato, disse con tutta calma “Signorina Treves, credo che la macchina stia continuando ad andare per conto suo…”[ride]. Una volta Einstein disse di lei: “Signorina Treves, lei è la donna più intelligente che io abbia mai conosciuto”. E mia zia era molto contenta e compiaciuta [ride].  Marcella Treves era un po’ triste per via della sua menomazione, ed era particolarmente contenta di poter viaggiare con mia madre e con Tullio Levi-Civita. Egli era ben lieto che mia madre avesse una compagnia: durante i congressi, lui andava alle conferenze e mia madre, invece di rimanere sola, poteva restare con questa sua grande amica. La quale era anche pittrice, era molto colta e sapeva l’inglese molto bene, il che le consentì di fare molta amicizia con vari matematici tra cui Oswald Veblen e William Graunstein, i quali poi vennero in Italia e furono varie volte suoi ospiti nella sua villa a Firenze. L’amicizia tra Libera e Marcella è stata un’amicizia profonda. La famiglia Treves viveva a Firenze, ma aveva un appartamento a Roma, dove Marcella era solita trascorrere il periodo invernale. Il padre era presidente di una compagnia di assicurazioni. “La Fondiaria”, da lui fondata, ed era una personalità molto nota a Firenze.
    Quando, da ultimo, Tullio stava già molto male, fu ospite a Firenze della famiglia Treves; in quel periodo un giovane cattolico trentenne, Giorgio La Pira, forse su suggerimento di Alessandro Levi, cugino primo di Tullio Levi-Civita, andava spesso a casa Treves a trovare Tullio, con il quale aveva simpatizzato e al quale leggeva libri e giornali in quanto Tullio era molto miope. Questo La Pira è stato poi una figura molto importante: ordinario di Diritto Romano all’Università di Firenze fin dal 1936, eletto nel 1946 membro della Costituente (l’Assemblea che ha scritto la Costituzione della Repubblica Italiana dopo la fine della Monarchia), parlamentare nel 1948, sindaco di Firenze dal 1951 al 1965; nel 2005 è terminata la causa della sua ‘beatificazione’, avviata nel 1986 dal Papa Giovanni Paolo II. Mia madre mi raccontava che era molto ammirata che Giorgio La Pira non avesse mai cercato di convertire al cattolicesimo Tullio; questa affermazione di mia madre mi rafforza nella mia convinzione sul significato problematico del “matrimonio religioso” tra Tullio e Libera.
    Stavo dicendo che nel ’45 zia Marcella faceva parte della comunità ebraica di Firenze...


JRG: Era una signorina ebrea?

SSC: Sì, Treves è un cognome ebraico. Zia Marcella aveva saputo che le suore che mi tenevano a Firenze avevano detto: “O questa bambina la teniamo noi e diventa suora, o se la riprende la comunità ebraica.”
    Allora la zia Marcella ha chiesto a mia madre, che voleva adottare un bambino: “La vuoi prendere?”. Sono andate al convento e mi hanno preso. In un primo momento la Comunità Ebraica di Firenze mi ha affidato congiuntamente a Libera Levi-Civita e a Marcella Treves, che era ebrea. La comunità ebraica era inizialmente un po’ incerta, perché mia madre era cattolica e, pur avendo sposato un ebreo, non era ebrea. E allora questa zia Treves ha detto: “Io sarò l’ebraicità di Susanna”. E quindi io nel ’45 sono stata data in affido congiuntamente a Libera e Marcella.


JRG: A che età?

SSC: A tre anni.

JRG: Ti ricordi qualcosa di quell’epoca, a tre anni?

SSC: Mi ricordo qualcosa, ma non so se si tratta di un vero ricordo o di un ‘ricordo costruito’ in base ai racconti che mi sono stati fatti. Per esempio, mi sembra di ricordare che quando siamo arrivati da Firenze nella casa di Via Sardegna (a Roma), mia madre ha detto: “Eccoci arrivati” e io ho detto: “In dove pilò”, che nel mio linguaggio infantile significava “Ma dove però?” [ride]. Ricordo anche il viaggio in macchina da Firenze a Roma: mia ‘cugina’ Laura (figlia di un’altra sorella di mia madre Libera), che allora aveva quindici anni, era con noi; mia madre, che era bellissima, aveva una stola di volpe ed io giocavo con il suo porta-cipria.
Sono stata molto amata anche dalla zia Cornelia, sorella di Libera, oltre che dalla zia Marcella Treves, che si occupava molto di me. Tutte le persone che conoscevo mi dicevano: “Chiamami zia”. E così io avevo la zia Edith Lewy, che era la sorella del matematico Hans Lewy, professore a Berkeley, molto affezionato alla famiglia Levi-Civita, e che era diventata per me un’altra zia di adozione. Questa Edith, diventata americana, mi mandava dei bellissimi giocattoli, tra cui ricordo una magnifica bambola di porcellana, con i capelli biondi veri e che apriva e chiudeva gli occhi. C’erano zie dappertutto; tutte mi dicevano: “Chiamami zia!” e così avevo tante zie e alcuni zii: anche mia madre, finché non venni adottata legalmente, si faceva chiamare da me ‘zia Nina’ (Libera veniva chiamata ‘Nina’ in famiglia e dagli amici) e come conseguenza Tullio Levi-Civita è sempre stato per me lo ‘zio Tullio’; poi avevo la ‘zia Cornelià e la ‘zia Roma’ (sorelle  Libera), la ‘zia Ida’ (sorella di Tullio), la ‘zia Sarina’ Nathan (nipote di Ernesto Nathan, sindaco di Roma, e moglie di Alessandro Levi, cugino di Tullio e da me chiamato ‘zio Sandro’), la ‘zia Giuliana’ e la ‘zia Silvia’ sorelle della ‘zia Marcella’ Treves; avevo la ‘zia Adriana’ e la ‘zia Alma’  (figlie di Federigo Enriques); la ‘zia Gina’ (figlia di Guido Castelnuovo). Un’altra persona a me molto cara, che tuttavia non ho mai chiamata ‘zia’, era Maria Fermi Sacchetti, sorella di Enrico Fermi, grande amica e collega della zia Cornelia. Per quanto riguarda gli zii, avevo lo ‘zio Vittorio‘ (marito della ‘zia Roma’), lo ‘zio Emilio’ Vidale marito della ‘zia Silvia’ Treves. Però lo zio per me più importante è stato lo ‘zio Eugenio’ Artom (marito della ‘zia Giuliana’ Treves), che era avvocato e ha aiutato mia madre per la pratica della mia adozione; egli è stato anche senatore nel Partito liberale ed è stato mio testimone di nozze nel 1965.
Le più importanti figure maschili della mia infanzia e adolescenza sono state lo ‘zio Eugenio’, il ‘nonno Guido’ Treves (padre della ‘zia Marcella’) e Franco Rasetti, uno dei Ragazzi di via Panisperna. L’amicizia di Franco Rasetti e di sua madre Adele con Libera è continuata dopo la guerra e si è estesa poi a me piccina; io aspettavo con ansia il suo arrivo a Cortina, perché mi portava con sé quando andava alla ricerca di fiori da fotografare (sui quali ha poi scritto un volume pubblicato dai Lincei). La sua amicizia è continuata anche dopo la morte della mia mamma, sia con me sia con la mia nuova famiglia e in particolare con mio figlio Tullio, ed è continuata a lungo, fino al suo trasferimento in Belgio e alla sua morte, avvenuta nel 2002 all’età di 101 anni. Recentemente, a nome delle famiglie Levi-Civita/Ceccherini/Silberstein, ho donato, al Nuovo Museo Paleontologico Rinaldo Zardini di Cortina, quattro bacheche realizzate da Franco Rasetti, contenenti le bellissime farfalle che avevo raccolto con lui nella valle d’Ampezzo durante le estati degli anni ’50.


JRG: E dove abitava Cornelia?

SSC: Insieme a mia madre in Via Sardegna 50. Hanno sempre vissuto insieme, perché Tullio Levi-Civita era contento che mia madre avesse una compagnia, visto che lui lavorava sempre moltissimo. La zia Cornelia era professoressa di lettere in una scuola media di Roma. Un’altra sorella, Roma Trevisani, che si era laureata in astronomia all’università di Padova, aveva sposato Vittorio Zelasio (lo ‘zio’ Vittorio), un friulano, e viveva a Cividale del Friuli vicino a Udine ed era insegnante di matematica alla scuola media superiore; la loro unica figlia, Laura, che ho già nominato, a proposito del mio viaggio a Roma nel 1945, aveva una dozzina di anni più di me e veniva spesso a Roma, ospite delle zie Libera e Cornelia e dello zio Tullio, che le era molto affezionato: ho ritrovato recentemente una bella fotografia, databile intorno al 1938, di Tullio con vicino la nipotina Laura di circa 8 anni.  Laura, che quindi era mia ‘cugina’, da grande ha poi studiato storia dell’arte all’Università di Roma ed è diventata pittrice: la maggior parte dei quadri, che sono in questa casa di Caprino Veronese, sono opera sua.

JRG: Tutte le sorelle Trevisani erano sposate?

SSC: No, la zia Cornelia no.
[Pause...]


SSC: Sono stata adottata legalmente nel ’53, credo. Edoardo Volterra, figlio di Vito, e Carlo Arturo Jemolo - due giuristi di grande fama – e lo ‘zio’ Eugenio Artom hanno aiutato mia madre in tutte le pratiche più complesse riguardanti la mia adozione e, successivamente, per farmi ottenere la cittadinanza italiana, in quanto ero, fino ad allora, apolide. Inoltre, due cugini di Tullio Levi-Civita, i fratelli Guido e Paolo Porto, che erano avvocati, si sono occupati delle pratiche più semplici relative a tali questioni, e con loro, mia madre ed io (che allora avevo 12 anni) siamo andate davanti al Giudice Tutelare. L’unica cosa che mi ricordo di quel giorno è che, davanti al giudice, mi è stato chiesto – e mia madre non mi aveva preparato a questo - “Vuoi mantenere il nome dei tuoi genitori?” Ed io ho detto: “Sì”. Naturalmente ero molto contenta di poter portare il cognome Silbertein dei miei genitori, al quale veniva aggiunto il cognome Trevisani  di mia madre adottiva. Tuttavia confesso che mi fece una certa impressione trovarmi fra persone quasi totalmente sconosciute in una buia aula di  tribunale e dover rispondere a un giudice seduto su una poltrona posta sopra un piedistallo che mi sembrava altissimo.

JRG: “Silberstein” è il cognome dei tuoi genitori?

SSC: Sì, di Walter e Edith Silberstein, di Vienna.

JRG: Hai conosciuto questo nome fin dal ’45?

SSC: Dunque, sì. La comunità ebraica di Firenze, cui Walter e Edith Silberstein si erano rivolti per chiedere aiuto e protezione, e che poi mi aveva sistemata al sicuro, presso le suore dell’Istituto La Fantina, aveva registrato i  nomi dei miei genitori. Le suore, invece, non sapevano niente: non avevano voluto sapere né dove ero nata, né da dove venivano i miei genitori, perché, se venivano i tedeschi o i fascisti - perché venivano molto spesso anche i fascisti, non solo i nazisti - non volevano dire bugie. E quindi, quando mia madre mi ha preso, nel ’45, si conoscevano solamente i nomi dei miei genitori e la loro città di provenienza, cioè Vienna, ma non si sapeva - e, del resto, ancora non lo so - né il luogo, né la data della mia nascita.

La mia mamma mi ha sempre detto, fin dall’inizio che ero stata adottata e che i miei genitori erano morti.

A Vienna, molti anni più tardi, facendo delle ricerche sulla mia famiglia, ho trovato il nome di mia madre scritto correttamente: sui miei documenti era indicato come Edith Horn, e invece mia madre si chiamava Edith Hahn. Io però non l’ho più cambiato nei miei documenti: ormai ero figlia di Edith Horn. Un tempo, in tutti i documenti anagrafici della scuola, ma non solo, bisognava sempre specificare i nomi del padre e della madre. Quindi, nella mia pagella, per esempio, c’era sempre scritto: Susanna di fu Walter Silberstein e di fu Edith Horn. Ora l’hanno tolta questa usanza, non c’è più.

JRG: Chi era Alessandro Levi, che hai già nominato?

SSC: Alessandro Levi (1881-1953) era un cugino primo di Tullio Levi-Civita: erano figli di due fratelli. Tullio era figlio di Giacomo Levi-Civita, e Alessandro era figlio della sorella di Giacomo, Irene Levi. E’ da notare che Giacomo aveva aggiunto al proprio cognome originario (Levi) quello di sua madre (Civita), allo scopo di non essere confuso con un altro Giacomo Levi, anche lui avvocato di Padova; invece, la sorella di Giacomo, Irene, non aveva avuto quella necessità e mantenne il cognome Levi senza aggiunte. Per rendere la storia ancora più complicata, questa Irene Levi, aveva sposato a sua volta un Giacomo Levi, il padre di Alessandro. Alessandro Levi era professore di Diritto all’Università di Firenze, ed è stato una grande figura d’intellettuale italiano. Ha scritto vari libri di diritto, che sono tuttora dei classici di Giurisprudenza e di Filosofia del Diritto, ed anche un libro su Giuseppe Mazzini e uno su Filippo Turati (il fondatore, assieme a Claudio Treves, del Partito Socialista Italiano). E’ da notare che Tullio Levi-Civita era cugino acquisito di Claudio Treves, in quanto era cugino primo della di lui moglie, Olga Levi che era sorella di Alessandro Levi; infatti Olga e Tullio erano figli di due fratelli (Irene Levi e Giacomo Levi-Civita). I rapporti di Tullio con il cugino acquisito erano molto profondi: Tullio divenne socialista, fu poi anti-intervenista e infine anti-fascista.

JRG: Invece, la storia di Libera comincia con la famiglia ...?

SSC:
... di Luigi Trevisani. Che era professore di Filosofia nei licei.

JRG: Nato dove?

SSC: Nato a Verona intorno all’anno 1858.

JRG: Durante il Risorgimento.

SSC: Sì. Poi è andato a Vienna ...

JRG: ... per studiare?

SSC: Sì, filosofia. Infatti nella biblioteca qui a Caprino abbiamo molti libri filosofici in tedesco. E aveva un fratello prete, Don Francesco: c’é una sua fotografia qui nel corridoio, al piano di sopra.

JRG: Luigi ha cominciato a insegnare …

SSC: … a insegnare al Seminario Vescovile, o al Convitto Nazionale, non ricordo.

JRG: A Verona?

SSC: A Verona. Il Seminario Vescovile è dove si studia per diventare preti. E quindi, insegnava Filosofia Morale, penso, o Filosofia Teoretica, non so. Più tardi ha anche insegnato Pedagogia, come testimoniato dai molti suoi libri di pedagogia qui in biblioteca. Poi è stato cacciato ...

JRG: Perché?

SSC: Perché, essendo libero pensatore, non voleva fare la Comunione tutti giorni con i suoi discepoli, come invece aveva ordinato il vescovo.
    Ora io non so se sia stato mandato a Cosenza, o se abbia scelto lui stesso questa destinazione coatta. Fatto sta che tra il 1892 e il 1894 si trasferì a Cosenza con tutta la famiglia. Pensa, Judith, che fra Verona e Cosenza c’è tutta l’Italia [ride]. Era una città molto acculturata, e importante - moderatamente, perché era piccola - durante il Regno Borbonico delle Due Sicilie e lui, Luigi, vi si trovò molto, molto bene. Lì era molto più felice rispetto a - quella che lui chiamava - “la bigotta Verona”.
    Nel 1887 aveva sposato Speranza Scolari, che era professoressa di Francese. Hanno avuto 7 figlie, di cui 2 morirono in tenerissima età, ed una terza, la Bice, appena quattordicenne.
    Silvia, l’unica di cui non ho ancora parlato e che era maestra elementare, aveva sposato un signore di Caprino, lo ‘zio’ Michele Bartoletti. La zia Roma ha sposato un signore di Cividale del Friuli (lo “zio” Vittorio), e poi mia madre, Libera, ha sposato Tullio Levi-Civita (lo “zio” Tullio) . La zia Cornelia non si era sposata.


JRG: Tua madre era la prima?

SSC: Sì, la più grande: era nata il 17 maggio 1890, a Verona. E ora ti farò vedere le fotografie, bellissime, delle sorelle Trevisani.

JRG: Tua madre è stata anche la prima delle sorelle a sposarsi?

SSC: Non so quale si sia sposata prima, se lei o Silvia. Quest’ultima si era sposata certo prima della fine della guerra, la Prima Guerra Mondiale, perché mi è stato raccontato che doveva occuparsi della casa e della campagna mentre il marito era in guerra. Silvia è morta nel 1929.

JRG: Allora Luigi ha vissuto in Calabria.

SSC: Sì. Poi è tornato al Nord ed è andato a insegnare a Ferrara.

JRG: Quando è morta la moglie?

SSC: Quando Libera aveva 11 anni. Se é nata nel 1890... Quindi intorno al 1901, all’incirca.

JRG: E Libera ha studiato al Liceo?

SSC: No. Libera ha fatto la Scuola Normale a Cosenza, perché le donne non potevano andare al Liceo. Ha studiato e poi ha fatto un anno d’insegnamento in un paese della Calabria. Privatamente (sotto la guida di Ettore Romagnoli, eminente grecista, collega e amico di Luigi Trevisani al Liceo Classico “Bernardino Telesio” di Cosenza) ha preso la maturità classica a Cosenza e infine si è iscritta all’Università di Padova.

JRG: E perché ha scelto matematica?

SSC: Una mia ipotesi: che forse il professore a Cosenza era un bravo insegnante di matematica. Questo non lo possiamo sapere. Ma, del resto, anche la sorella Roma ha poi studiato matematica. Roma, che era la secondogenita, da bambina, era stata mandata per qualche anno in Puglia, a Corato da uno zio, mercante di stoffe. E quindi lei ha fatto la scuola lì, credo; poi però si è iscritta anche lei all’Università di Padova. E si è laureata in Astronomia.

JRG: Non ho capito bene: chi ha studiato Astronomia?

SSC: La zia Roma. Se guardi le fotografie, forse capisci un pochino di più, perché altrimenti non sono persone vere; sono solo dei nomi, ma se vedi le fotografie diventano delle persone. Invece la zia Cornelia - che hai conosciuto nel 1973 - ha potuto fare il Liceo, perché, nel frattempo,  era stato aperto anche alle donne. É stata la prima donna [ride] a frequentare il Liceo a Cosenza. Non il vero Liceo, ha fatto solo il Ginnasio: i primi due anni del Liceo Classico. Poi il padre si è trasferito a Ferrara, e la zia Cornelia ha terminato il Liceo a Ferrara, dove ha avuto come compagno di scuola Giulio Carlo Argan (eminente storico dell’arte, poi anche Sindaco di Roma). E poi, sebbene anche lei avesse voluto studiare matematica, si è iscritta a Filosofia a Padova. Tutte e tre le sorelle Trevisani hanno studiato a Padova.

JRG: Tutte e tre all’Università. Ma tu mi hai detto che il padre ha detto: “No, una di voi non deve studiare matematica”. Perché?

SSC: Perché lui pensava che così tutte e tre le sorelle avrebbero potuto insegnare nella stessa scuola. Allora lui ha detto: “Tre professori di matematica in una stessa scuola non ci possono essere, tu [Cornelia] studia Filosofia”. E la zia Cornelia era scontentissima, ha sempre odiato la Filosofia e ha sempre detto: “Io volevo fare Matematica”. [ride] Poverina.

JRG: Adesso parliamo della famiglia di Tullio Levi-Civita.

SSC: Allora, come ti ho già detto prima. Tullio Levi-Civita era figlio dell’avvocato Giacomo Levi-Civita (1846-1922) e di Bice Lattes, i quali ebbero anche una figlia, Ida che sposò Enrico Senigaglia. A questo  proposito, devo aprire una parentesi. Giacomo Levi-Civita – come mi è stato raccontato da mia madre e anche confermato da Lotte Treves (moglie di Paolo Treves, figlio di Claudio Treves e di Olga Levi, sorella di Alessandro Levi) – era nato col solo cognome Levi e aggiunse il cognome Civita di sua madre soltanto successivamente, allo scopo di distinguersi da un altro avvocato Giacomo Levi anch’egli di Padova e anch’egli residente in Via Altinate. La sorella di Giacomo Levi-Civita, Irene Levi (che invece non modificò il proprio cognome) sposò un Giacomo Levi (il terzo Giacomo Levi di questa storia!), direttore delle Assicurazioni Generali a Venezia, dalla cui unione nacque Alessandro Levi. Giacomo Levi-Civita, il padre di Tullio, a sedici anni seguì Garibaldi in Aspromonte nel 1862 (qui Garibaldi si scontrò con le truppe piemontesi che lo intercettarono nel tentativo di liberare Roma dal dominio del Papa, e fu ferito a una gamba), e poi, ventenne, partecipò nel 1866 sempre come volontario garibaldino alla Terza Guerra di Indipendenza, ottenendo una menzione onorevole nella Battaglia di Bezzecca; Garibaldi gli regalò un ritratto con dedica autografa “A Giacomo Levi, G. Garibaldi” (Giacomo non aveva ancora aggiunto il cognome materno).

JRG: E c’era anche una sorella di Tullio...

SSC: Si chiamava Ida, che ha sposato l’avvocato Enrico Senigaglia, che lavorava nello studio del padre.

JRG: E lei non ha studiato.

SSC: No.

JRG: Né Scuola Normale, né...

SSC: No, niente. Studiava a casa come tutte le signorine di buona famiglia. Non poteva aprire la persiana prima delle 8.30 e allora ricamava a lume di candela, ricamava molto.

JRG: E tu mi ha detto anche che forse non c’era un rapporto molto buono tra le due cognate.

SSC: No, si volevano molto bene. Ma mia madre era laureta, era molto bella, alta e molto elegante. La zia Ida era piccola, più di Tullio Levi-Civita [ride], ma aveva dei bellissimi occhi pervinca.

JRG: Più piccola di Tullio Levi-Civita?

SSC: Sí. Io Tullio Levi-Civita non l’ho mai visto, ma la zia Ida era piccina così. Era tutta gioielli e la sua conversazione era un conversazione mondana, diciamo. Ma era carina, non era colpa sua se non era acculturata, era colpa del padre [ride]. E questa Ida, poverina, ha avuto un’unico figlio, Renato, che è morto a 22 anni.

JRG: Durante la guerra?

SSC: Sí, nel ‘18 credo. Non so se nel ‘18 o ’19, aveva preso una polmonite durante la guerra e una volta non si guariva. Per lei è stato un grande dolore, ma non ne ha mai parlato. Era molto abituata a tenere il dolore dentro di sé. Comunque quando andavo da lei, nel ’50, nel ’51, poi negli anni successivi, e non mi è mai capitato di sentirla parlare del figlio.

JRG: Quando Levi-Civita è venuto per la prima volta in questa casa di Caprino?

SSC: Devi giocare di fantasia [ride], perché io non so come era fatta questa casa. Credo che fossero due case separate, una più a monte, e l’altra più a valle; in mezzo passava il ruscello che veniva sfruttato per fare girare le pale di un mulino: ci sono ancora i resti delle grandi macine, probabilmente da frantoio.

JRG: E Tullio ha parlato con il professore di Filosofia, il padre di Libera?

SSC: Sí, e gli ha chiesto - come si usava una volta - la mano della figlia.

JRG: E all’inizio Libera forse ha avuto qualche...

SSC: ... perplessità, perché Levi-Civita era il suo professore, lo vedeva come...

JRG: C’era anche una grande differenza di età.

SSC: Sí, 17 anni. Ma usava molto che una donna sposasse un uomo più grande [ride]. E poi la perplessità era probabilmente anche dovuta al fatto che Tullio veniva da questa grande famiglia ebraica, mentre mia madre era cattolica.
    Ma lei é stata molto felice con lo zio Tullio, molto contenta di averlo sposato. Lei avrebbe voluto insegnare (matematica), ma, assecondando il desiderio del marito, rinunciò a questa sua aspirazione. Lui viaggiava molto e lei lo seguiva sempre, ciò sarebbe stato incompatibile con l’insegnamento. A volte, però, mia madre si annoiava un pochino: Tullio lavorava sempre moltissimo. Allora ha incominciato a dipingere, anche se pensava di non essere brava. Molti quadri a Roma li ha fatti lei. Anche qui a Caprino ci sono diversi quadri dipinti da mia madre.


JRG: Ma lei ha insegnato, forse, per un anno?

SSC. Sí.

JRG: E poi si è sposata?

SSC: Sí. E il marito le ha detto: “Devi fare la compagna della mia vita”. Mia madre ha imparato a guidare nel ’36, subito prima del viaggio in America. Ha dovuto anche imparare l’inglese (a quei tempi la seconda lingua della borghesia italiana era il francese), perché lui viaggiava molto e potesse quindi condividere con lui un’intensa vita sociale. Per esempio, facevano grandi pranzi con ospiti illustri, come Einstein, Sommerfeld, etc. Insomma, doveva fare la vita della moglie di un grande matematico. Al loro arrivo a Roma (da Padova), nel 1918, hanno vissuto al Largo di Santa Susanna. Poi, nel ‘24 si sono trasferiti a via Sardegna.

JRG: A Tullio Levi-Civita piaceva leggere libri?

SSC: Non credo. O almeno, solo libri di matematica. E poi, mentre il suocero, Luigi Trevisani, aveva dei libri antichi - che io penso si sia comprato lui stesso, anche in latino - Tullio Levi-Civita comprava solo il volume che gli serviva: non era assolutamente interessato ad avere, come i bibliofili,  un’opera necessariamente al completo.
    Mia madre ha regalato i suoi numerosissimi libri all’Accademia dei Lincei [ride] e anche le lettere più importanti.
    Libera e Tullio andavano tutti i sabato pomeriggio in casa Castelnuovo, dove si riunivano diversi matematici e fisici dell’università: c’era Enrico Fermi, ci andava anche la zia Cornelia. Mia madre era la più giovane tra le donne sposate (la zia Cornelia era signorina). Facevano molti scherzi e si divertivano moltissimo. E tutto ciò, nonostante l’ospite, il professor Castelnuovo, che aveva una bella barba, fosse molto serio. Castelnuovo aveva 5 figli e sua moglie, la ‘zia Elbina’ (sorella di Federigo Enriques) era molto carina, proprio molto carina.
    E quindi tutti i sabato pomeriggio giocavano alle sciarade e si divertivano. C’erano anche gli Enriques, Federigo con la moglie e i figli: Giovanni e Adriana. Quest’ultima aveva anche lei studiato matematica. Invece i Volterra erano più seri, non credo che frequentassero spesso il salotto dei Castelnuovo.
    I Castelnuovo vivevano quasi di fronte a Via Sardegna, in Via ...


JRG: ...in Via Boncompagni?

SSC: Sí, in Via Boncompagni.

JRG: È vero che Levi-Civita, che era professore all’Università di Padova, per un certo tempo non è stato chiamato a trasferirsi presso l’Università di Roma, perché lui era socialista?

SSC: Non penso che sia stato esattamente così. Io ho un vago ricordo che mia madre mi accennò ad una certa difficoltà per Tullio a ottenere il trasferimento a Roma, in quanto era stato apertamente pacifista e contrario all’intervento dell’Italia nella prima guerra mondiale.
    Per chiarire l’atmosfera di grande tensione in Italia sull’argomento dell’intervento, ti racconto un episodio familiare. Questo è molto divertente. Nel 1914, quando Libera e Tullio erano già sposati, si parlava della possibile entrata in guerra dell’Italia (rimasta ancora neutrale) contro l’Austria. Giacomo Levi-Civita – quando] era ancora Giacomo Levi – a 16 anni era andato a combattere con Garibaldi. L’entrata in guerra contro l’Austria era considerata ancora una guerra di Indipendenza, quindi il padre, garibaldino, voleva ancora riconquistare una parte d’Italia – cioè Trento e Trieste –  che considerava italiana. Tullio Levi-Civita, che era socialista (come il cugino acquisito Claudio Treves), era non-interventista, anzi, proprio pacifista. Allora una volta, erano a tavola, si parlava di politica e Tullio Levi-Civita disse: “No, non dobbiamo entrare in guerra”. E il padre – cioè Giacomo Levi-Civita – replicò: “Taci, Tullio!”. Allora mia madre, allora giovane sposa di 24 anni, intervenne dicendo con un certo impeto: “Ma lo faccia parlare, gli dia la parola!”. E allora Giacomo Levi-Civita disse: “Libera, o mi chiedi scusa o esci da questa stanza”. E mia madre si alzò da tavola e uscì dalla stanza [ride]. “Taci Tullio!” e pensare che Tullio aveva 40 anni, ed era professore ordinario all’università! Per questo ho detto che era una famiglia patriarcale: perché il figlio, a 40 anni, avrebbe dovuto tacere davanti al padre. Però si volevano molto bene, credo, come in tutte le famiglie ebraiche, anche in America, c’è questo amore.


JRG: Puoi dirmi che tipo di persona era Libera Trevisani ?

SSC: Ho il ricordo di una donna colta, bella, elegante, riservata, ma disponibile con tutti, dedita a opere sociali e sempre pronta ad aiutare gli altri. Si è occupata attivamente di un Istituto per l’assistenza a ragazze madri, e di una Scuola Ortofrenica (per formare i futuri insegnanti nelle classi con bambini diversamente abili). È stata presidente per molti anni della FILDIS (la sezione italiana della IFUW), associazione alla quale ha dedicato molto del suo tempo e delle sue energie. Ha continuato a ricevere a casa sua, come quando era vivo Tullio, numerosi amici matematici stranieri di passaggio per l’Italia (Gheoghe Vranceanu, Octav Onicescu, Hans Lewy, Osvald Veblen), ha aiutato gli orfani e le vedove. Dopo il terribile terremoto del Belice, in Sicilia, del 1968, ha ospitato per un anno un ragazzino che aveva avuto la casa distrutta, consentendogli di terminare la scuola media e poi aiutandolo negli studi successivi: ora è professore ordinario d’Ingegneria Idraulica all’Università di Brescia.

JRG: E che tipo di relazione c’era tra te e tua madre ?

SSC: C’è stato tra noi un grande affetto, io ero per lei quel figlio che aveva tanto desiderato e lei è stata per me la mamma, anzi quel tutto, che mi era stato tolto. Quando mi ha preso con sé aveva 55 anni, ma era piena di energia. Mi ha molto coccolato, forse anche un po’ viziato …, ma insomma mi è stata sempre vicina, senza mai opprimermi, pur essendo una donna con un forte carattere e con un notevole carisma che le dava una grande autorevolezza. Mi voleva rendere molto indipendente: a nove anni mi mandava da sola sui campi da sci e a 13 mi fece fare un viaggio, sempre da sola, in treno da Lione a Parigi. Dopo il mio matrimonio, nel 1965, Pier Vittorio ed io siamo andati inizialmente a vivere con lei e con la zia Cornelia, e quando nel ‘66 è nato il piccolo Tullio, loro due si sono spostate nell’appartamento vicino; poi nel ’69 è nata Francesca;  Libera e Cornelia hanno fatto con tanta gioia la nonna e la zia dei due nuovi nipotini, ci sono state vicine in tutti i sensi, ma non sono mai state invadenti. Hanno avuto un bellissimo rapporto anche con Pier Vittorio e con i nipotini.  I miei figli, Tullio e Francesca, ricordano con tanto affetto la figura della “nonna Libera” e della “zia Cornelia”, ma anche quella della “zia Marcella” (Treves), che come ho già detto è stata per me una seconda madre.

JRG: Per finire, puoi dirmi qualcosa, anche brevemente, sulla tua famiglia di origine ?

SSC: Entrambi i miei genitori erano viennesi. Walter Silberstein era un chimico, Edith Hahn lavorava come sarta. Entrambi provenivano da una famiglia della media borghesia austriaca. Avevano 27 anni quando, nel 1938, si sposarono ed emigrarono da Vienna, prima in Belgio, e poi, inseguiti dalla guerra, in Francia, dove nel ’40 nacque la mia sorellina Elena, infine in Italia, a Firenze. Io sarei nata nel ’42, ma non sono riuscita ancora a sapere esattamente né dove né quando. Walter e Edith hanno messo in salvo le due figlie in due diversi conventi di Firenze; loro invece sono stati deportati da Firenze nel campo di transito di Fossoli, vicino a Modena. Il 29 marzo ’44 Edith ha dato alla luce il piccolo Riccardo. Nel maggio dello stesso anno Walter e Edith, che avevano 33 anni, e il loro figlioletto di neanche due mesi, sono stati deportati da Fossoli ad Auschwitz, dove sono stati uccisi. Mia sorella Elena è morta di stenti a Firenze nello stesso anno. Ho sempre saputo, fin da quando sono stata affidata a Libera Trevisani, la storia della mia famiglia. Ma soltanto dopo la morte di Libera, con l’aiuto di Pier Vittorio e il sostegno dei miei due figli sono riuscita a ricostruire varie notizie sui miei nonni e bisnonni, avendo nel frattempo trovato un cugino –  figlio di una sorellastra di Walter – che vive in Israele.


 

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